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6. LUOGHI E ATMOSFERE DELLA
GIRGENTI DE I VECCHI E I GIOVANI.
Pirandello è nato il 28 giugno del 1867 in una località
chiamata Caos, la Valsania del romanzo: “…una notte di
giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario
in una campagna d’ulivi saraceni affacciata agli orli d’un
altopiano d’argille azzurre sul mare africano. Si sa le
lucciole come sono…Qualcuna ogni tanto cade…Così io vi caddi
quella notte di giugno…”
(Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra
, Pirandello ).
Di Girgenti Pirandello ha scritto, oltre che ne I vecchi
e i giovani, anche ne Il turno e in numerose
novelle.
I vecchi e i giovani
si apre con la descrizione di una Girgenti desolata, le cui
strade sono rese quasi impraticabili dalla violenza di un
temporale; una descrizione che, a leggere attentamente, ci
appare simbolica: “… la pioggia, caduta a diluvio
durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo
stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in
cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi. Il
guasto dell’ intemperie appariva tanto più triste, in
quanto, qua e là, già era evidente il disprezzo e quasi il
dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la
via per facilitare il cammino tra le asperità di quei luoghi
con gomiti e giravolte e opere or di sostegno or di riparo:
i sostegni eran crollati, i ripari abbattuti, per dar passo
a dirupate scorciatoje.”
Sin dalla prima pagina Girgenti appare abbandonata in una
miseria senza riparo, “silenziosa e attonita superstite
nel vuoto d’un tempo senza vicende, costellata di vecchie
casupole, vere tane di miseria.” Agrigento è una città
sofferente abitata da pochi nobili e borghesi e da una
grande massa di poveri contadini sfruttati e ancora legati a
un’economia arcaica (Pirandello-
Storia di un personaggio fuori di chiave, E. Lauretta).
Anche se Pirandello si allontanerà ben presto dalla sua
terra, il “ soggiorno” agrigentino ed in particolare i
luoghi del Caos influiranno non poco nella formazione del
carattere e della personalità dello scrittore: “Io dunque
sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta
realtà, perché sono nato in una nostra campagna, che trovasi
presso ad un intricato bosco, denominato in forma
dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti”. Dalla sua
terra assorbe usi e costumi, tradizioni, superstizioni e,
fattore ancora più importante, l’atteggiamento “umoristico”
nei confronti del reale (Pirandello
e i luoghi del caos, Giuseppe Lo Iacono).
Le strade di Girgenti sono poco agevoli e l’impianto
urbanistico labirintico: “Vi si saliva per angusti vicoli
sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici
spesso, intanfati dai cattivi odori misti esalanti dalle
botteghe buje come antri...” La monotonia, il grigiore e la
noia della esistenza sembrano interrotte soltanto da
pettegolezzi e liti “… le giornate uguali tutte, vedendo la
stessa gente alla stess’ora, udendo le solite liti che
s’accendevano da un uscio all’altro tra due o più comari
linguacciute…” .
La
vicenda de I vecchi e i giovani, che ha come
scenario privilegiato la Girgenti di fine ottocento, si
snoda attraverso le sue vie dall’ ingresso della città,
Porta di Ponte, alla Via Atenea, detta
anche “Piazza Piccola”. Angusta e tortuosa era la zona
borghese della città dove erano dislocati i principali
uffici. L’autore ricorda della Via Atenea i tradizionali
cortei funebri che quasi ogni giorno la
attraversavano: “Non
passava giorno che non si vedessero per via in processione
funebre le orfanelle grigie del Boccone del povero:
squallide, curve, tutte occhi nei visini appassiti, col velo
in capo, la medaglia sul petto e un cero in mano. Tutti, per
poca mancia potevano averne l’accompagnamento…”. Alla
fine della Via Atenea si trovava l’odierna Piazza
Nicolò Gallo, allora chiamata Piazza
Sant’Anna ov’erano i tribunali nel centro della città…”.
Un’altra zona principale era la “Passeggiata Cavour”,
che allora era collocata all’uscita della città. Pirandello
l’aveva definita come “ l’unica cosa bella” di Girgenti per
il panorama molto suggestivo che essa offriva: “La vista di
tutta la spiaggia, sotto, svariata di poggi, di valli, di
piani e del mare, in fondo nella sterminata curva dell’
orizzonte”).Tra
le zone più periferiche, descritte da Pirandello, vi sono il
quartiere di San Gerlando e la Bibirria. Situato in cima ad una
collina, il quartiere di San Gerlando è caratteristico per
la presenza di molte chiese, della Cattedrale “insigne
monumento d’ arte normanna, deturpato nel settecento da
orribili costruzioni di stucco e volgarissime dorature” e,
soprattutto, del palazzo del Vescovado che Pirandello
descrive più volte
(Dentro l’anima di Girgenti, Stefano
Milioto). Dalla Cattedrale, attraverso una via molto ripida,
si giungeva al quartiere della Bibirria, il cui nome arabo
voleva dire Porta dei Venti, che nel romanzo, viene
attraversata dai due personaggi Capolino e Ninì: “presero
per l’ erta via di Lena dove pareva fosse un tumulto attorno
a qualcuno che cantava. Niente! Erano i pescivendoli che,
arrivati or ora dalla marina, scavalcati dalle mule cariche,
gridavano tra la folla il pesce fresco, con lunga e gaia
cantilena. I tre proseguirono per la salita sempre più erta
di Bac Bac, finchè non giunsero presso la porta più alta
della città, a settentrione, il cui nome, arabo anch’esso,
Bab-er-rjiach (Porta dei Venti), era divenuto Bibirria”.
La Valle dei Templi è sicuramente uno dei luoghi che
Pirandello ammira di più: “Dov’ era il cuore dell’ antica
città sorgeva ora un bosco di mandorli e d’olivi, il bosco
detto perciò ancora della Civita…Oltre il bosco, sul lungo
ciglione sorgevano i famosi Tempii superstiti, che parevano
collocati apposta a distanza...” Ed ancora: “Guardò i Tempii
che si raccoglievano solenni e austeri nell’ ombra, e sentì
una pena indefinita per quei superstiti di un altro mondo e
di un’ altra vita. Tra tanti insigni monumenti della città
scomparsa ad essi era toccata in sorte di veder quegli anni
lontani: vivi essi soli già tra la rovina spaventevole della
città; morti ora essi soli in mezzo a tanta vita d’ alberi
palpitanti, nel silenzio, di foglie e di ali. Dal prossimo
poggio di Tamburello pareva che movesse al tempio di Hera
Lacinia, sospeso lassù, quasi a precipizio sul burrone dell’Akragas,
una lunga e folta teoria d’ antichi e chiomati olivi; e uno
era là, innanzi a tutti curvo sul tronco ginocchiuto, come
sopraffatto dalla maestà imminente delle sacre colonne; e
forse pregava pace per quei clivi abbandonati, pace per quei
Tempii, spettri d’un altro mondo e di ben altra vita.” È
evidente in queste descrizioni la nostalgia di un maestoso
passato ormai concluso e la sofferenza per un presente tutt’altro
che nobile e grandioso (Pirandello- Storia di un
personaggio fuori di chiave,E. Lauretta). Tra il tempio
d’Ercole e quello di Giove Olimpo vi era la Porta Aurea
dell’antica città greca, la via percorsa dal capitano
Sciaralla (al
servizio di don Ippolito) nelle prime pagine del romanzo,
per giungere in “un altro feudo, a circa quattro miglia da Colimbetra.” La Colimbetra
di don Ippolito si trova un po’ più a nord rispetto ai
templi, “nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette
si uniscono e le rocce si dividono e le linee dell’aspro
ciglione, su cui sorgono i Tempii, è interrotta da una larga
apertura. In quel luogo, ora detto dell’Abbadia Grassa, gli
akragantini, cent’ anni dopo la fondazione della loro città,
avevano formato la pescheria, gran bacino d’acqua che si
estendeva fino all’Hypsas e la cui diga concorreva col fiume
alla fortificazione della città”.
Tra Girgenti e Porto Empedocle si trova poi Villaseta,
descritta come un “casale d’una cinquantina d’abituri
allineati nello stradone, fondachi e taverne per i
carrettieri, la maggior parte, da cui esalava un tanfo acuto
e acre di mosto, un tepor grasso di letame, e botteghe di
maniscalchi, di mugnai, di carrai, con una stamberguccia
in mezzo, ridotta a chiesuola per le funzioni sacre della
domenica”.A poche centinaia di metri vi era il
Caos, la Valsania del romanzo, la “casa” di
Pirandello, con l’ulivo saraceno “…c’ era da più che cent’anni
un olivo saraceno, il cui tronco robusto, pieno di gruppi e
di nodi, per contrarietà dei venti o del suolo, era
cresciuto di traverso e pareva sopportasse con pena infinita
i molti rami sorti da una sola parte, ritti, per conto
loro.” Da quell’altopiano è ben visibile Porto Empedocle,
la “marina” di Girgenti: “Vado sotto il pino, là, guardo il
mare, vedo laggiù a ponente Porto Empedocle, che al tempo
della mia partenza per Malta non aveva altro che la Torre,
il Rastiglio, il Molo Vecchio e quattro casucce e ora è
diventato quasi una città” (così dice nel romanzo
Mauro Mortara).
Porto Empedocle era nato, infatti, come molo di Girgenti:
“Una ventina di casupole prima, là sulla spiaggia…con un
breve pontojo di legni sottili, detto ora Molo vecchio, e un
castello a mare, quadrato e fosco, dove si tenevano ai
lavori forzati i galeotti, quelli che poi, cresciuto il
traffico dello zolfo, avevano gettato le due ampie scogliere
del nuovo porto, lasciando in mezzo quel piccolo Molo, al
quale in grazia della banchina è stato serbato l’onore di
tener la sede della capitaneria del porto e la bianca torre
del faro principale. Non potendo allargarsi per l’imminenza
di un altipiano marnoso alle spalle, il paese
s’è allungato sulla stretta spiaggia, e fino all’orlo di
quell’altipiano le case si sono addossate, fitte, oppresse,
quasi l’una sull’altra. I depositi di zolfo si accatastavano
lungo la spiaggia; e da mane a sera è uno stridor continuo
di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione
ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; è
un rimescolio senza fine d’uomini scalzi e di bestie,
ciattío di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti,
bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d’un treno
che attraversa la spiaggia, diretto ora all’una ora
all’altra delle due scogliere sempre in riparazione. Oltre
il braccio di levante fanno siepe alla spiaggia le spigonare
con la vela ammainata a metà su l’albero; a piè delle
cataste s’impiantano le stadere sulle quali lo zolfo è
pesato e quindi caricato su le spalle dei facchini, detti
uomini di mare, i quali, scalzi, in calzon di tela, con un
sacco su
le spalle rimboccato su la fronte e attorno dietro la nuca,
immergendosi nell’acqua fino all’anca, recano il carico alle
spigonare, che poi, sciolta la vela, vanno a scaricare lo
zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto, o fuori”. Il
ricordo di questo paesaggio è particolarmente vivo in
Pirandello, soprattutto per l’esperienza dell’estate del
1886, quando “…parte per Porto Empedocle per mettersi a
travagliare con il padre. È l’anno nel quale dal porticciolo
vennero imbarcate quasi trecento tonnellate di zolfo
proveniente dalle 271 miniere funzionanti nel
retroterra…Dopo tre mesi di durissima fatica, Luigi arriva a
pensare che quell’ambiente sulfureo, diabolico, non possa
che generare pensieri malsani” (Biografia del figlio
cambiato, A. Camilleri).
Pirandello
vive con le sue origini un rapporto contraddittorio, sospeso
sempre tra la voglia di evasione che lo porta il più lontano
possibile dalla sua isola e il desiderio di tornarvi
soprattutto attraverso la memoria e l’arte. Andrea
Camilleri sostiene che Pirandello non abbia amato la sua
triste moribonda cittaduzza, come si può evincere da
alcuni passi del romanzo ivi riportati: “i pubblici uffici,
prefettura, intendenza delle finanze, scuole governative,
tribunali, davano ancora un po’ di movimento, ma quasi
meccanico, alla città:altrove ormai urgeva la vita.
L’industria, il commercio, la vera attività, insomma, si era
trasferita a Porto Empedocle “giallo di zolfo, bianco di
marna, polverulento e rumoroso, in poco tempo divenuto uno
dei più affollati e affaccendati empori dell’isola…” E
ancora: “In piazza Sant’Anna, ov’erano i tribunali, nel
centro della città, s’affollavano i clienti di tutta la
provincia, gente tozza e rude, cotta dal sole… I molti
sfaccendati della città andavano intanto su e giù, sempre
d’un passo, cascanti di noia, con l’automatismo dei dementi,
su e giù per la strada maestra, l’unica piana del paese, dal
bel nome greco, via Atenea, ma angusta come le altre e
tortuosa. Via Atenea, Empedocle…nomi: luce di nomi, che
rendeva più triste la miseria e la bruttezza delle cose e
dei luoghi” (op. cit.).Eppure nel suo romanzo
Pirandello esprime il sentimento profondo che lo lega alla
sua terra natìa, un sentimento malinconico che va oltre
quello che Sciascia definirà sicilitudine; l’autore,
infatti, ha conservato dentro di sé, suoni, colori,
suggestioni, atmosfere della sua terra, e la sicilianità
costituisce il sottosuolo psicologico della sua opera
e senza di essa non si spiega la grandezza della sua arte (La
siepe Sicilia, G. Santangelo).Il
richiamo della propria terra, l’attrazione verso quella che
Santangelo definisce la “siepe Sicilia” (in questo caso
potremmo dire la “siepe Girgenti”), dovette comunque
rimanere forte se scelse la sua terra natale, Girgenti, come
ultima dimora: “Salutatemela, codesta mia terra natale, nel
cui grembo, quando che sarà, vorrò riposare per sempre senza
un nome che mi rammenti su un sasso agli uomini, i quali
forse un giorno potrebbero venire a disturbarmi” (Luigi
Pirandello, Bonn,11 novembre 1889) .
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