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1. I VECCHI E I GIOVANI
Scritto tra il 1906 e il 1909, con ancora viva l’eco dello scandalo della
Banca Romana (1893), un esempio di malgoverno che non cessa
di riproporsi ciclicamente nella storia italiana, I
vecchi e i giovani venne pubblicato prima a puntate nel
1909 sulla “Rassegna contemporanea” e quindi nel 1913 in
volume, un ventennio dopo il drammatico epilogo dei Fasci
siciliani. La vicenda si sviluppa intorno ad alcuni episodi
che appartengono alla biografia di Luigi Pirandello: la
crisi delle miniere di zolfo, cui seguì la malattia della
moglie, l'impatto con la vita e la mondanità romana, i moti
che sfociarono nella repressione e nel sangue. Il “romanzo
della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo,
dov'è racchiuso il dramma della mia generazione” (Pirandello),
è “l’opera più vasta e complessa di Luigi Pirandello” (Spinazzola),
“dove l'identità unificante del passato è opposta alla
politica, categoria negativa del presente” (Guglielminetti-Joli).
1.1 Trama e personaggi
La
vicenda ha inizio con l'annuncio dell'unione in seconde
tardive nozze tra don Ippolito Laurentano, capostipite di
una famiglia aristocratica agrigentina, e Adelaide Salvo,
sorella di un facoltoso borghese di pochi scrupoli, don
Flaminio Salvo.
L’episodio s'inserisce nel quadro di un evento più rilevante: le elezioni
politiche del deputato che avrebbe rappresentato a Roma gli
interessi della città di Girgenti. Si scontrano così da una
parte Ignazio Capolino, del Partito Clericale Militante,
dall’altra il socialista Roberto Auriti, con sullo sfondo la
disincantata popolazione.
“Chi poteva curarsi, in tale animo, delle elezioni politiche imminenti? E
poi, perché? Nessuno aveva fiducia nelle istituzioni, né mai
l'aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male
cronico, irrimediabile; e considerato ingenuo o matto,
impostore o ambizioso chiunque si levasse a gridarle
contro”.
L’economia siciliana era ormai crollata a causa della crisi dell’industria
mineraria e della miseria delle campagne. I Laurentano
rappresentano il passato feudale ma anche, attraverso il
figlio Lando , il desiderio di un futuro migliore,
guadagnato a prezzo di errori e di delusioni, di aspirazioni
e di rovesci generazionali. Al contrario, Flaminio Salvo,
banchiere, proprietario di terre e di miniere, rappresenta
un presente sterile e triste, senza progetto, segnato solo
dal suo smodato e insaziabile desiderio di arricchimento a
scapito dei più deboli.
Il disgusto dell'autore si scatena, però, nella descrizione di Ignazio
Capolino e di Nicoletta Scoto, campioni di quella piccola
borghesia ambiziosa, senza ideali né principî, che basa la
propria esistenza sulla finzione e sulle apparenze.
“Era quello un momento drammatico, d'intermezzo alla commedia che marito e
moglie rappresentavano da due anni ogni giorno, anche
nell'intimità delle pareti domestiche, l'una di fronte
all'altro, compiacendosi reciprocamente della loro finezza e
della loro bravura. Sapevano bene l'uno e l'altra che non
sarebbero mai riusciti a ingannarsi e non tentavan nemmeno.
Che lo facessero per puro amore dell'arte, non si poteva
dire, che odiavano entrambi in segreto la necessità di
quelle loro finzioni. Ma se volevano vivere insieme senza
scandalo per gli altri, senza troppo disgusto per sé,
riconoscevano di non poterne far di meno. Ed eccoli dunque,
premurosi a vestire, o meglio a mascherare di garbata e
graziosa menzogna quel loro odio; a trattar la menzogna come
un mesto e caro esercizio di carità reciproca, che si
manifestava in un impegno, in una gara di compitezza
ammirevoli, per cui alla fine marito e moglie avevano
acquistato, non solo una stima affettuosa del loro merito,
ma anche una sincera gratitudine l'uno per l'altra. E quasi
si amavano davvero”.
Nella parte “romana” dell'intreccio Pirandello mette in scena il dramma
che nel 1893 coinvolse i vertici della Banca Romana insieme
ad alcuni elementi del governo liberal-democratico di
Giolitti, alcuni ampiamente colpevoli di aver abusato del
proprio ruolo istituzionale, altri inconsapevoli complici
dei primi.
La vicenda è narrata a volte direttamente dall’autore, altre volte dai
personaggi stessi, le cui personalità, spesso, si scoprono
man mano che il racconto procede.
I personaggi descritti da Pirandello si dividono in due grandi
schieramenti: i vecchi e i giovani.
I vecchi sono coloro che hanno combattuto le guerre del Risorgimento e
partecipato all’impresa garibaldina; molti tra costoro,
decaduto il clima eroico, finiscono con l’adattarsi ad una
vita mediocre e di compromesso, lasciandosi prendere
dall’ambizione dei titoli e del potere, incapaci di
risolvere i secolari problemi della vita nazionale, mentre
Roma diventa una cloaca, il Settentrione coltiva loschi e
bassi interessi, il Meridione vive inerte, misero e
ignorante.
I giovani sono invece coloro che credono nel rinnovamento sociale, civile
e politico della nazione dopo tanti secoli di divisione
politica; è la generazione educata alle idee del socialismo,
che fonda in Sicilia i Fasci dei lavoratori e che spinge
intere province alla rivolta, convinta che “soltanto in
Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare
un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e
prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa!”.
Dei giovani fanno parte Lando Laurentano, Dianella Salvo,
Aurelio Costa ed una piccola schiera di audaci scontenti.
Alla fine del romanzo tutti risultano perdenti; vittima simbolo della
disfatta degli ideali e dei progetti della nuova società
italiana e dell’atteggiamento violento assunto dalle classi
popolari, desiderose di emancipazione, sarà Mauro Mortara,
ucciso per sbaglio dalle pallottole dei soldati, mentre
intendeva aiutarli a sedare la rivolta.
Il punto di vista dell’autore e la chiave del romanzo sembrano provenire
da un personaggio, Cosmo Laurentano, che rappresenta la
figura, cara a Pirandello, del filosofo estraniato, che ha
“capito il giuoco” e guarda la vita come da un’infinita
lontananza. Agli occhi del vecchio, le passioni degli
uomini, gli ideali patriottici, le conquiste del potere
economico, le ideologie politiche come il socialismo, sono
illusioni che ci si crea per consistere, per vivere,
magari nobili ma del tutto vane, prive di realtà oggettiva,
di cui non si può scorgere “né il senso né lo scopo”.
Tutto il complesso quadro storico del romanzo finisce dunque per
dissolversi ed appiattirsi nel fluire insensato della vita:
“Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo
non conclude. Se non conclude, è segno che non deve
concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione.
Bisogna vivere, cioè illudersi, lasciar giocare in noi il
demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare
che tutto questo passerà… passerà…” ( don Cosmo ne I
vecchi e i giovani).
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